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Nel mazzo Fortitudo il jolly è Piovani: «Centrocampo, una nuova vita. Ma dentro resto un attaccante»

Nel mazzo Fortitudo, il jolly è lei. Difensore e centrocampista da bambina a Ghedi, attaccante al Brescia Primavera e delle grandi, di nuovo in mezzo al campo a Mozzecane. Sempre con il medesimo spirito, «lottando, imparando e segnando». Beatrice Piovani è la «matta» gialloblù. «Il jolly rappresenta la carta plurivalente, che può aiutarti a vincere. E nel calcio ha lo stesso significato: è una giocatrice capace di ricoprire diversi ruoli. Io sono così». Vertice basso nel centrocampo a tre di Fabiana Comin, la diciannovenne bresciana studia e cresce. Il gol, però, resta il suo desiderio quotidiano.

Piovani, cosa vuol dire essere un jolly?

«Da un lato mi fa molto piacere: se l’allenatore ha bisogno, può schierarmi in diverse posizioni e contare su di me. Dall’altra parte, però, non so ancora quale sia il mio ruolo e vorrei riuscire ad avere un’identità precisa».

Attaccante per anni al Brescia ma a Mozzecane è stata sempre impiegata da centrocampista, sia nella passata annata con Lucio Manganotti che ora con Fabiana Comin. Come mai?

«All’inizio della scorsa stagione avevo espresso il desiderio di giocare punta centrale, o comunque nel tridente offensivo, però gli infortuni colpirono subito i centrocampisti e, trovandosi in emergenza, il tecnico mi mise mezz’ala all’esordio in campionato contro l’Orobica. Da quel momento, venni utilizzata costantemente lì: Manganotti diceva che sono una che corre tanto e che lavora parecchio per aiutare la squadra, per questo scelse me per quella posizione».

La stagione 2016/17 la comincia appunto da mezz’ala, poi Comin decide di schierarla davanti alla difesa contro l’Unterland Damen: la Fortitudo Mozzecane vince 0-3 e lei non si muove più da lì. È iniziato un nuovo capitolo? 

«In effetti sì. E per me si tratta di una novità assoluta e di una scoperta interessante perché mai avevo ricoperto tale ruolo. L’allenatore ha avuto una bella intuizione e quella partita ci regalò la prima vittoria in campionato e un cambio di marcia sia a livello di risultati sia di mentalità, ma il merito non fu solo mio: siamo in diciotto e ognuna di noi è importante».

Le piace Beatrice vertice basso?

«Mi trovo bene. Sono trascorse sette gare da allora e, dopo un periodo necessario per abituarmi, mi sono ambientata. La calciatrice che sta davanti alla difesa dà equilibrio alla manovra e, tecnicamente, sento di poter svolgere questo compito: ora cerco di tenere di più la palla a terra e verticalizzare con intelligenza quando vedo l’opportunità giusta. Il vertice basso è differente rispetto alla mezz’ala: i tempi di gioco sono diversi, spesso bisogna fronteggiare da sole più avversarie, e occorre chiudere gli spazi e far ripartire l’azione. Ecco, caratterialmente non mi reputo ancora la persona adatta per un ruolo così: devo tirare fuori maggiore personalità».

Ci sono qualità dell’attaccante che le stanno tornando utili?

«In primis, la protezione del pallone: avendo fatto la punta per anni, ho imparato ad usare il corpo per difendere la posizione. Inoltre, il gioco aereo: non ho per niente paura di saltare e colpire la sfera di testa».

Ieri attaccante, oggi centrocampista. Però, sfogliando le pagine della sua carriera, scopriamo che da bambina, quando giocava con i maschi a Ghedi, era già stata utilizzata in mezzo al campo.

«È vero. Nell’ultima stagione a Ghedi (categoria giovanissimi, ndr) mi hanno impiegato come centrocampista centrale, anche se in un 4-4-2. Avevo 14 anni, ero una ragazzina ed è trascorso parecchio tempo: ho perso il guizzo, sono sincera, e ho dovuto ricominciare da capo. In ogni caso, mi piace lavorare in mezzo al campo e cerco di impegnarmi al massimo».

In che modo una punta si trasforma (si ritrasforma, nel suo caso) in centrocampista?

«Intanto, non è detto che un attaccante ci riesca a priori. Non bisogna essere chiusi o convinti che solo la fase offensiva sia il proprio ruolo: al contrario, occorre sentirsi duttili e disposti a vivere situazioni nuove. In più, per il bene della squadra ci si adatta volentieri».

E lei lo ha fatto con costanza.

«Già. Quando un tecnico mi ha provato in una determinata posizione è sempre rimasto soddisfatto e questo aspetto mi rende davvero fiera di me stessa. Nella scorsa annata non è stato facile diventare una mezz’ala: all’inizio ero macchinosa, lenta, spaesata e ho avvertito il salto tra campionato Primavera e serie B, poi, grazie anche all’aiuto delle compagne, ho capito come comportarmi».

È più dura la vita dell’attaccante o della centrocampista?

«Centrocampista. È un ruolo più delicato e dispendioso, corri per tanti chilometri durante una partita e devi essere rapido a pensare a cosa fare, perché gli spazi e i tempi sono ridotti rispetto all’attacco».

In campionato ha finora giocato punta centrale in un paio di occasioni, contro Clarentia Trento e Orobica. E nella prima di queste ha segnato. Un caso?

«Non credo. Il fiuto del gol ce l’ho ancora (sorride, ndr). Tuttavia, so che al momento alla Fortitudo serve che io stia a centrocampo, quindi va bene così. Ovviamente, non nascondo che mi piacerebbe tornare a giocare davanti: sono un attaccante dentro, nell’anima».

Sette reti nel 2015/16, una nel 2016/17. La rete le manca?

«Un sacco. Quest’anno ho meno possibilità di andare al tiro, perciò la probabilità di colpire è più bassa. Vivo con dispiacere tale situazione, in carriera non sono mai rimasta a secco per così tante giornate (dieci, ndr) e segnare sarebbe fondamentale, sia per sbloccarmi che per sentirmi di nuovo me stessa».

Realizzare un gol da centrocampista o da attaccante regala la medesima emozione o la prospettiva è diversa?

«Allora, la gioia è uguale. Sono una punta e vivo per il gol, però siglare una rete da centrocampista ha un sapore più particolare, proprio perché ci sono meno chance di concludere l’azione. Infatti, sono molto felice di aver fatto sette gol da mezz’ala nello scorso campionato».

Clarentia Trento-Mozzecane, 92° minuto: Piovani è a tu per tu con il portiere, potrebbe segnare l’1-3 ma sbaglia. Capovolgimento di fronte e arrivano il 2-2 e il fischio finale. Ripensa, qualche volta, a quell’errore?

«Spesso. A Trento mi sono sentita in colpa e mi è crollato il mondo addosso: ero entrata in campo nella ripresa con lo spirito giusto, avevo realizzato l’1-2, avrei potuto chiudere il match e invece la mia imprecisione è costata il successo alla squadra. Quello sbaglio è un peso che mi porto dietro e mi ha insegnato ad avere più freddezza e a mettere in pratica la prima cosa che mi viene in mente: il modo migliore per cancellarlo sarà segnare un gol che valga una vittoria».

Dal suo esordio in serie B nel 2015/16 è sempre scesa in campo, 34 volte su 34: Beatrice è una garanzia?

«Garanzia è una parola grossa. Di sicuro do il 100% ogni settimana ed essere così considerata in un torneo difficile come la serie B, oltretutto in una posizione nuova, è una forte gratificazione. Penso, infatti, di non aver mai disputato tante sfide di fila, neppure a Brescia in Primavera. Ringrazio gli allenatori che hanno creduto, e che credono, in me: il mio dovere è ripagare la loro fiducia con prestazioni all’altezza».

Se fosse partita titolare pure a Trento alla seconda giornata, avrebbe giocato anche tutte le gare dall’inizio e tutti i minuti da quando milita in B.

«Peccato, il record si è interrotto, ma sono contenta ugualmente. Quella esclusione dal primo minuto fu una scelta tecnica: sono una persona molto autocritica e non la presi bene, mi arrabbiai con me stessa e cominciai a pormi diverse domande. Forse è per questo motivo che poi sono entrata in campo con grande cattiveria agonistica».

Centrocampista nei giovanissimi a Ghedi: un giorno un compagno attaccante si fa male e lei diventa punta. La sua vita sportiva cambiò.

«Fu una svolta. In dicembre l’allenatore si ritrovò senza attaccanti, tra infortuni e influenze, e mi provò in fase offensiva. Da lì è cominciato un nuovo cammino e da punta mi sono tolta le migliori soddisfazioni: la rete più importante l’ho realizzata con il Brescia Primavera, nel 2015, nella finale del Torneo Arco di Trento vinta 2-0 contro il Grifo Perugia (Beatrice segnò l’1-0, ndr), mentre il gol più bello con la Fortitudo è stato il 3-1 siglato nel campionato scorso, in casa, contro Oristano, saltando un’avversaria e segnando da fuori area».

E dire che i primi passi nel calcio li aveva mossi da difensore.

«A Ghedi, infatti, ho ricoperto i ruoli di difensore centrale nei pulcini e di terzino negli esordienti. Ricordo che mi chiamavano il “mastino” perché “picchiavo” abbastanza (ride, ndr): sono sempre stata una lottatrice e dove non arrivavo con la tecnica, cercavo di farcela con la grinta. Se mi è rimasto qualcosa del difensore? Il lancio. Il tecnico dei pulcini mi aveva insegnato ad alzare la palla e a calciarla lontano».

A Brescia, sia in Primavera che in prima squadra, veniva utilizzata anche come esterno alto. La fascia le appartiene?

«Non particolarmente. Ero un esterno di spinta, a cui piaceva andare sul fondo e crossare. Se c’è bisogno mi adeguo, però preferisco stare al centro dell’attacco».

A proposito di Brescia: il 3 gennaio il Mozzecane ha affrontato in amichevole proprio il Brescia campione d’Italia in carica. Rivedere il Club Azzurri di Mompiano e le sue ex compagne che sensazioni le ha trasmesso?

«Una bella emozione. Era la prima volta che tornavo su quel campo e dover entrare nello spogliatoio ospite, invece che in quello di casa, nonché giocare contro atlete e amiche che fino a due anni fa erano mie compagne, è stato singolare. Durante la partita, però, mi sono concentrata e ho pensato solo alla Fortitudo: penso di aver lasciato una buona impressione da vertice basso. Tra l’altro, a fine gara, Barbara Bonansea mi si è avvicinata e mi ha detto: “Finalmente hai trovato il tuo ruolo”. Vedremo se avrà ragione».

Beatrice è tra le candidate alla «Perla del calcio» bresciano, premio istituito dal quotidiano Bresciaoggi. Che si prova?

«Sono felice. Ma non me l’aspettavo. È gratificante essere ricordata nonostante io giochi in una Provincia diversa: vuol dire che i giornalisti si sono informati e mi hanno tenuto d’occhio. Stare in lista insieme a campionesse del calibro di Martina Rosucci, Sara Gama, Daniela Sabatino, Barbara Bonansea e Valentina Cernoia rappresenta un grande orgoglio. Naturalmente non guardo la classifica però sognare non costa nulla».

Fare il jolly cosa insegna?

«Ad aprire la mente e a maturare più in fretta: nell’ultimo anno sono cresciuta parecchio, sia di testa che a livello di consapevolezza. Essere duttile serve sempre, nello sport, nel lavoro e nella vita».

C’è il rischio che variare così tanti ruoli possa generare confusione?

«Confusione no. Sono una perfezionista e in campo seguo le direttive dell’allenatore. Tuttavia, a volte mi pongo alcuni interrogativi: quale sarà la mia posizione? Dove ho l’opportunità di rendere al meglio?».

Come vive i cambiamenti?

«In modo un po’ conflittuale. All’inizio li rifiuto perché penso di non essere in grado, poi c’è la fase di adattamento in cui provo a buttarmi. Infine, quando vedo che una cosa mi riesce, acquisisco fiducia e ci credo».

Piovani ha un piede «educato»?

«Abbastanza. Mi hanno sempre insegnato che lo stop è essenziale e cerco di sbagliarlo il meno possibile. Dopodiché, me la cavo sia nel passaggio che nel tiro. Il destro è il mio piede forte, mentre il sinistro è molto maleducato (sorride, ndr)».

Che ruolo farà da grande?

«Non ho ancora una risposta. La posizione che preferisco, però, è la prima punta. Tutti i ruoli sono importanti, è vero, ma chi segna lascia sempre un segno speciale».

L’incarico che non sente suo?

«Il difensore centrale. La retroguardia è un mondo completamente differente dal mio e farei fatica ad orientarmi».

Il portiere?

«È l’unica posizione in cui non sono mai stata, però non mi ci vedo. Tuffarmi di qua e di là non mi attira, avrei paura di sbattere contro i pali e sono più brava con i piedi che con le mani».

Matteo Sambugaro

Foto: Graziano Zanetti Photography

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